Joe Biden, ha voluto parlare all’America, e al Congresso, per la prima volta dallo studio ovale, al ritorno della sua visita lampo in Israele. Ha chiesto sacrifici al popolo pur con un debito pubblico che sta per sfondare i $ 2.000 mld; con la spada di Damocle dello shot down; con una economia instabile tanto che l’agenzia Fitch ha tagliato il rating da AAA ad AA+; mentre, secondo un recente sondaggio della CBS News/YouGov, il 53% del suo partito è molto critico sulla sua gestione delle crisi.
Nonostante ciò, Biden ha chiesto un ulteriore stanziamento di $ 100 mld (ogni osservatore sa che non saranno gli ultimi) per Ucraina, Israele, Taiwan.
La leva del discorso è sempre la stessa: salvaguardare la sicurezza nazionale; punire chi propaga caos nell’attuale ordine mondiale governato dagli USA; sterilizzare i dittatori; lottare per la democrazia contro la autocrazie.
Le sue frasi, a conclusione del discorso alla Nazione: “Putin e Hamas non devono vincere”; “USA devono rimanere il faro del mondo”.
Frasi che sanno un po’ di suprematismo.
La necessità di un tale discorso dallo studio ovale ci dice che qualcosa sta succedendo negli Stati Uniti di America. Infatti, non si può dire che non sia cambiato nulla negli ultimi decenni: la trasformazione è palpabile. Dopo la seconda guerra mondiale, gli USA consolidarono il proprio primato di potenza mondiale. Erano dappertutto e, in generale, ben accolti. Ma lentamente, nei decenni seguenti, la loro presenza ha cominciato a suscitare sentimenti di indifferenza, prima, e poi di insofferenza. Oggi, dobbiamo rilevare che quei sentimenti, in molte parti del mondo, assumono il colorito dell’astio.
Senza voler accendere dispute ideologiche e pregiudiziali, qui richiamiamo semplicemente il detto popolare che dice “l’ospite è come il pesce, dopo tre giorni puzza”. Ciò è ancora più vero quando l’ospite è invadente e quando si pone con atteggiamenti di superiorità come quelli da “USA, faro del mondo”. Il citato proverbio è popolare e antichissimo, diffuso già ai tempi di Plauto, un grande commediografo romano vissuto tra il 3° e il 2° secolo A.C..
E il popolo, sappiamo, ha sempre ragione.
Infatti, se si parte dal presupposto che l’identità, la libertà, la dignità delle genti sono fattori ineludibili, allora le dinamiche citate non solo appaiono coerenti ma, anche, decisamente prevedibili. Questa evidente trasformazione dei rapporti internazionali induce la curiosità di conoscere cosa stia accadendo negli USA e nei rapporti sociali domestici. Anche qui, senza scendere nel dettaglio dello scenario sociopolitico statunitense, salta agli occhi la progressiva e inarrestabile dinamica della complessità multietnica del Paese. Vediamo quale.
Il Presidente George Washington, il 2 agosto del 1790, indisse il primo censimento degli Stati Uniti d’America che mostrò che le persone residenti erano 3.929.326 e gli schiavi erano 697.681. Da allora, il censimento si è celebrato, regolarmente, ogni dieci anni; l’ultimo dei quali nel 2020 in piena pandemia.
Le etnie più presenti sono quattro: Bianchi, Afroamericani, Ispanici, Asiatici. I Nativi ed altre etnie sono di marginalissima e irrilevante presenza.
Ebbene, oggi, il 60% della popolazione statunitense è bianco, il 19% ispanico, il 12% afro-americano e il 6% asiatico; il restante 3% di altre etnie. Soffermiamoci sui dati dal dopoguerra in poi, in un intervallo di circa 70 anni, dal 1950 al 2019 per usare i dati disponibili secondo le analisi di YOUTREND e osserviamo i trend.
Si rileva che i trend, dal 1950 al 2019, sono i seguenti:
● Bianchi dal 87,5% al 60,1% (una flessione impressionante del 27,4%);
● Afroamericani dal 10% al 12,2% (sostanzialmente stabili);
● Ispanici dal 2,1% al 18,5% (un incremento impressionante del 16.4%);
● Asiatici dallo 0,2% al 5,6% (un incremento notevole del 5.4%).
Osserviamo che ii valori citati riguardano le incidenze dell’etnia sul totale della popolazione che ovviamente è cambiata nelle dimensioni. Supponendo che i trend mantengano gradienti di sviluppo coerenti ai dati citati, appare presumibile che, in trenta anni, i Bianchi cederanno la maggioranza del Paese agli Ispanici. Soprattutto in considerazione dei tassi di natalità che nell’area “bianca” sono inferiori a quelli delle altre etnie.
E, allora, la lingua spagnola, o meglio il “spanghlish” (gergo anglo spagnolo) sarà parlato dalla maggioranza degli statunitensi. Gli USA, già oggi, secondo l’Istituto Cervantes, è il quarto paese al mondo di lingua spagnola. Intanto, negli USA, la multi etnia sta configurando la società civile secondo una logica che è propria della cultura indiana: la logica delle caste. Infatti, è meglio, dal punto di vista sociale e per l’opinione pubblica, nascere bianchi piuttosto che neri; nascere asiatici piuttosto che ispanici.
Questo è già un problema sociale di per sé. Ma un altro problema è emergente.
Quando, sarà consolidata una maggioranza di “persons of color” (così, oggi, negli USA vengono indicati i “non bianchi”, compresi gli Ispanici) non significa forse che assisteremo ad una virata lenta ma inesorabile delle politiche interne e di quelli internazionali?
Non vi è alcun dubbio, infatti, che la visione della vita sia alquanto differente fra bianchi e “persons of color” e ciò, ovviamente, condiziona la politica. Verrà forse meno, nel giro di pochi decenni, la dichiarazione di Biden: “USA, faro del mondo” per far posto ad altro tipo di dichiarazioni?
Biden ne è consapevole?
Antonio Vox