Antonio VoxMario Draghi, parlamento, sergio mattarella
Il Presidente della Repubblica, il Parlamento, il Presidente del Consiglio: una terna fondamentale per gli equilibri e la vita democratica del Paese.
La Costituzione Italiana, la legge fondamentale che ci tiene uniti, composta da una prima parte di sistema valoriale e da una seconda parte di sistema organizzativo dello Stato, assegna al Parlamento, che rappresenta l’insieme dei cittadini e da esso insieme è delegato, una funzione di predominio; tanto è vero che esso elegge i due Presidenti.
L’equilibrio costituzionale e democratico del Paese è assicurato quando si può fare affidamento sulla sinergica integrazione delle tre Istituzioni o, meglio, delle tre funzioni.
Ma quando il Parlamento accusa un depauperamento intellettuale e culturale, diventando un mercato di scambio e non il fulcro di una politica prospettica, allora si osserva una redistribuzione, nella terna, dei ruoli e dei poteri.
Questa confusione, chiaramente fuori dai dettami della Costituzione, si trasmette, gocciolando, nell’ampia platea dei cittadini che perdono la bussola del vivere civile. Il primo effetto, gravissimo, è che cade la fiducia nello Stato; il secondo, ancora più grave, è che non ci si fida più di nessuno.
Una degenerazione cavalcante che è confermata da un astensionismo al 50%; da una emigrazione di oltre 2 milioni di cittadini che lavorano all’estero compensata da una immigrazione caotica, senza costrutto, senza qualità.
Ma, soprattutto, senza una politica prospettica, non si capisce che fine facciano le tasse che lo Stato incassa, non si sa nulla delle numerose “spending review”, non si comprende come il taglio delle spese pubbliche (quando i conti non tornano e proprio non ce la si fa più!) sia “lineare” invece di essere focalizzato sugli sprechi. Non è mai spiegato quali siano, fra le spese pubbliche effettuate, quelle buone e quali siano i parametri per considerarle tali; non si riesce a capire perché le riforme, tanto decantate, non si facciano e, quando si annunciano, si rivelano così asfittiche e gattopardesche da non essere più definibili come “riforme”.
Un Parlamento depauperato intellettualmente e culturalmente se, da un lato, crea disequilibri nel funzionamento della terna, dall’altro, favorisce l’ispessimento dei quella “crosta burocratica” che – in mancanza di efficaci riforme istituzionali che dovrebbero avere sapore squisitamente politico – divora sempre più inefficacemente lavoro e risorse dissipando, nel totale disinteresse e, forse, inconsapevolezza, tempo prezioso che sottrae alla propria efficienza e a tutta la società socioeconomica.
Allora, mentre la terna trova nuovi e anticostituzionali equilibri, la “crosta burocratica” annichilisce le identità, le libertà e le dignità straformandosi da struttura di servizio in struttura di controllo.
Un Parlamento, caratterizzato da ignavia ed evanescenza, è ovviamente del tutto incapace di disegnare efficaci e vivaci riforme strutturali di ampia visione politica. La palla passa, dunque, stancamente, alla “crosta burocratica” che, viste le proprie attitudini e funzioni, non fa altro che aggiungere norme ad un sistema normativo ormai fatiscente, contraddittorio, consumatore abusivo d’ossigeno e pertanto asfissiante. Non c’è meraviglia che lo Stato diventi sempre più obeso ed elefantiaco: il che non fa che peggiorare lo scenario.
Non ci vuole molto a capire che il tanto propagandato PNRR, decantato come leva della rinascita e dello sviluppo dell’Italia, perderà la sua attesa spinta vitale asservito alla necessità di “apparare” situazioni emergenziali causate dalla pandemia e dalla guerra in Ucraina. Se poi si pensa che le realizzazioni saranno gestite, dalla progettualità alla esecuzione, dalla P.A.L. (burocrazia locale), il quadro non si presenta affatto roseo.
Ci si domanda, quindi, cosa stia facendo il governo dei migliori; mentre si tralascia quella più pertinente in cosa consista questo essere migliori.
Intanto, siamo nell’anno elettorale senza che la pandemia sia scomparsa dai radar dei media e con l’apparire negli stessi radar della nuova emergenza di guerra.
Nella confusione del Parlamento, prendono vita effimeri fuochi d’artificio che hanno nomi precisi (Salvini, Berlusconi, Renzi, Letta e Conte e Meloni) che, però, stanno bene attenti a non chiudere anticipatamente la legislatura.
Se questo è lo scenario, certamente non si sbaglia nel sospettare che il Presidente della Repubblica debba essere molto preoccupato.
Chiuse le urne, egli potrebbe non avere più a disposizione il suo braccio armato Mario Draghi (già imposto sfruttando una poco trasparente crisi di governo e di maggioranza) proprio quando gli orizzonti della pandemia, della guerra, della società e della socioeconomia nazionale e internazionale sono così foschi.
Qualcuno potrebbe coltivare l’idea di allontanare le elezioni o di abolirle.
Ma non sarebbe una buona idea perché il Paese ha bisogno di essere profondamente governato con una chiara politica prospettica.
C’è, tuttavia, da attendersi, man mano che si avvicina il marzo 2023, notti da lunghi coltelli visto che i “posti di lavoro” disponibili in Parlamento sono solo 630.
Una certezza, però, c’è: da un lato, non si vede all’orizzonte una offerta politica degna di questo nome; dall’altro il Paese ha bisogno di politici, non ovviamente statisti, ma certamente non controfigure prive di personalità e spessore.
Ciò non può che alimentare la disaffezione politico-istituzionale degli italiani, i quali vedono le attività dei partiti caratterizzate da incoerenza e da promesse programmatiche da marinaio.
Ci sarebbe da formulare una legge elettorale rivoluzionaria che, tuttavia, non vedrà mai la luce. Allora, che fare, in questo scenario?
Posto che l’elettore non ha né i mezzi né le informazioni che gli consentano di ben selezionare i candidati; posto che gli unici a poterlo fare sono i partiti i quali, tuttavia, nella lotta per il consenso, vanno alla affannosa “ricerca e adescamento” di persone “popolari” per acquisire agevolmente pacchetti di voti dimenticando di valutare, di tali personaggi, le attitudini alla politica; posto che, una volta eletti, gli “onorevoli”, sono alla mercè delle segreterie di partito;
tutto questo premesso, che senso avrebbe lo sperare che l’elettore possa scegliere il proprio candidato, con le preferenze?
Non sarebbe, invece, il caso che ciascun partito produca una offerta politica, strategica chiara e credibile, identitaria, ben diversa dagli obbligatori “programmi elettorali” ai quali nessuno dà importanza perché ridotti a immaginifici slogan e formulati “dopo” l’assemblaggio delle coalizioni elettorali?
Non sarebbe il caso di lasciare ai partiti la responsabilità della esecuzione delle loro proposte per ben valutare, a consuntivo, la fattibilità delle loro visioni, il loro effetto sullo scenario socioeconomico, ma anche la bontà della nostra scelta?
Tradotto: evitiamo di premiare compagini che non offrono alcun disegno prospettico per il Paese; potremmo ridurre l’astensionismo; potremmo focalizzare sui temi fondamentali la bagarre della campagna elettorale; potremmo chiarire a noi stessi dove vogliamo che il Paese vada.
Non sarebbe un enorme “salto culturale”?
Antonio Vox
Presidente “Sistema Paese” – Economia Reale & Società Civile