L’Occidente, il cui riferimento sono gli Stati Uniti d’America, con l’Europa al seguito, sta attraversando un periodo storico di alta criticità.
La crisi, che appare irreversibile, ha colpito, come un virus, proprio gli USA.
Il guardiano del mondo, l’esportatore di democrazia, il Paese delle Libertà, il poliziotto sanzionatore, ora è stretto fra un colonialismo decadente e costose guerre senza fine, come Ucraina e Gaza; espone un altissimo debito pubblico e spesso ha rischiato il default per sfondamento del budget; subisce un attacco senza precedenti al suo petrodollaro; deve fare i conti con un vivace e preoccupante scontro politico interno, quasi da guerra civile.
Ma, soprattutto, è rimasto vittima della sua arma più micidiale: la globalizzazione. Nè i Paesi alleati come l’Europa e il Giappone possono aiutarlo.
Quale sarà il futuro dell’Occidente quando settori critici come l’economia e la finanza appaiono traballanti tanto che è evidente il tentativo di innescare nuovi mercati con gli slogan della “transizione ecologica” e della “transizione digitale”?
Per ora, non si intravede nulla, all’orizzonte; solo nebbia fitta! Tuttavia, crediamo di avere a disposizione una cartina al tornasole: la Nato.
Costituita, come alleanza difensiva, militare e politica, il 4 aprile 1949, a Washington, con la firma del Trattato del Nord Atlantico, da un gruppo di 12 Nazioni, nel tempo si è allargata. Oggi conta ben 32 paesi membri, fra cui molti dei quali provenienti dall’ex blocco sovietico e dalla storica neutralità come Svezia e Finlandia, entrambi timorose dell’imperialismo espansionista russo.
La Nato, in questi ultimi anni, ha subito una trasformazione copernicana.
Non più di un quinquenni fa, dopo la caduta della Unione Sovietica, sembrava che il nemico per eccellenza (l’URSS) si fosse estinto tanto che si intensificavano sempre più i rapporti commerciali fra i paesi europei e il gigante continentale, la Russia.
Trump, da Presidente USA, annunciava la crescente indisponibilità degli USA a sostenere economicamente la Nato senza il sostanziale contributo europeo. Facendo eco, ecco che il presidente francese Emmanuel Macron ne dichiarava la “morte cerebrale”, non nascondendo la soddisfazione di diventare la potenza militare europea di riferimento.
Oggi, però, la Nato, rivitalizzata dalla guerra in Ucraina (agli storici capire la reale genesi di questa guerra), è quella che conduce la nuova militarizzazione europea: contribuire con il 2% del PIL nazionale è l’obiettivo di tutti gli Stati del vecchio continente.
Ma ci sono due problemi.
Il primo è strutturale: chi gestisce la Nato? Non c’è un voto assembleare, ma è dominante la tecnica del “consenso”.
Il secondo è funzionale: con quale ruolo la Nato e i paesi occidentali intervengono così pesantemente (in armamenti, sostegno socio economico, sanzioni, affiancamento militare, …) in Ucraina tanto da comparire come i veri antagonisti della Russia? Sembra labile e populista l’alibi di “salvaguardare la sicurezza, la democrazia e la libertà dell’Europa”.
Ecco che emerge la sensazione che la alleanza stia cambiando pelle: da organizzazione difensiva a organizzazione interventista.
Oggi l’Ucraina, domani chissà quali potrebbero essere le aree di interesse.
La questione non è più solo soldi, armamenti, mezzi, logistica. Intervengono altri fattori ben più complessi e strategici che spuntano, prepotenti, dal cambiamento dello scenario mondiale: una lenta ma inesorabile evoluzione dove la globalizzazione, regno delle multinazionali e di un selvaggio neo capitalismo, colonialista e asservitore, cede il passo alla geopolitica, con la riscoperta delle identità dei popolo e della cultura dei territori.
E’ questo l’aiuto, armandosi, che potrebbe dare l’Europa agli USA, gigante sfiancato? Si comincia, infatti, con insistenza, a parlare di un esercito europeo (dichiarato di “difesa” per non allarmare i popoli!) tanto che il primo ministro britannico Keir Starmer, a nome del mondo anglosassone, propone addirittura di elevare il contributo al riarmo dal 2% al 3,5%.
L’ipotesi di lavoro, con la “minaccia” della elezione di Trump alla presidenza degli Stati uniti, sembra essere una “alleanza Nato”, questa volta solo formale, fra due grandi eserciti, quello americano e quello europeo.
Ma, fino a che in Europa, non ci sarà una politica estera comune e, quindi, strategie internazionali condivise, oltre che una reale autonomia e indipendenza dagli Stati Uniti, l’eventuale esercito europeo sarà ancillare a quello americano ma assumerebbe in proprio rischi e costi.
Tuttavia, la autonomia e indipendenza dagli USA potrebbe rappresentare una panacea per l’Europa e costituirebbe il seme fecondo per costruire gli Stati Uniti d’Europa; ma la strada è lunga. Per ora, gli Usa non appaiono disposti a perdere la sovranità sulla Europa e gli stati europei non gradiscono “mettersi realmente insieme”, in testa Francia e Germania, tanto che proliferano numerosi trattati bilaterali soggettivi.
Lo scenario è in equilibrio instabile.
E’ una difficile partita politica a scacchi che è condizionata da eventi attesi quali le elezioni americane del prossimo novembre.
La confusione è massima perché in tutto il mondo politico europeo, così come nella opinione pubblica e nei sistemi militari domestici, sembrano prendere vigore simpatie filo russe, atteggiamenti di contrasto ad una guerra che ha stancato tutti, di posizioni mediane e non partigiane; mentre emergono priorità alternative quali il continente africano ed il Mediterraneo che riscuoteranno grandi benefici dalla fine della guerra in Ucraina.
L’Italia, oggi costretta in posizioni atlantiste, pro USA e pro Nato, incline a non assumere responsabilità dirette, con una politica equivoca del “volemoce bene” nonostante forti dichiarazioni di appartenenza, accreditata per questo di un bassissimo tasso d’affidabilità, potrebbe essere il primo beneficiario della fine della guerra in Ucraina.
L’Italia naviga in un mare tempestoso ma, a suo vantaggio, c’è che il “volemoce bene” è molto attaccaticcio.
L’Italia può fare cose, nello scacchiere internazionale, che altri non sono in grado di fare.
La riunione plenaria Nato, inaugurata da Joe Biden al Mellon Auditorium di New York, per celebrare il 75° anniversario della alleanza, si è svolta nella maniera più scontata e monotona possibile.
Il tema dominante: vittoria di Kiev, sostegno a Kiev (€ 40 mld), armamenti a Kiev, soldi a Kiev. E, poi, Patriot, Samp-t italiani, caccia F16, Stinger e HAWK. A questo, però, si sono aggiunti trattati bilaterali come la ratifica di una alleanza militare Francia/Germania/Italia/Polonia (Elsa = European Long-Range Strike Approach) e l’alleanza bilaterale Italia/Turchia.
Infine, però, si è confermato il riarmo con la approvazione del contributo del 2%.
Ma non deve sfuggire l’unanime riconoscimento di due premesse:
1. la Nato ha due fronti, quello a EST (Ucraina/Russia con la Cina sullo sfondo) e quello a SUD (Mediterraneo e Africa);
2. il rafforzamento della sicurezza globale contro le autocrazie.
Ecco il cambio pelle della Alleanza. Tutto ciò sembra avvalorare l’analisi politica fin qui esposta.
Non abbiamo che da attendere gli eventi in corso al di là dell’Atlantico dove la frenetica lotta politica per la Presidenza, che vede coinvolti Repubblicani e Democratici, Trump da un lato e la Harrys dall’altro, ha raggiunto il suo acme.
Antonio Vox